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Il tempo di Perseo (Joker, 2004)
Talvolta, se la terra del sentiero è intatta, si accanisce, contro ogni prova di realtà, a inventare orme, sapendo che un giorno alla sua fantasia che un omicida si aggiri nel bosco risponderanno i piedi reali dell’assassino, calcati in quelle orme come guanti nelle dita.
Ogni follia è uno privato schema di verità a cui non si possono opporre alternative. Supporre un’analogia tra allucinazioni e immagini in libertà è ingenuo. Non è la libertà di immaginare che caratterizza il delirio ma tumori di immagini, che occupano spazio nella mente.
L’esistenza umana si fonda sul bisogno di un forma plastica, vivente: nel momento della patologia o domina un rituale ossessivo, che irrigidisce, o un’idea delirante, che ne frantuma i confini.
Un tempo voleva, con lo strumento della lingua, sperimentare le macerie del mondo. Poi capì che non aveva senso aggiungere violenza a violenza, che smembrare il tessuto fonetico per definire lo scempio di un corpo non era scandalo ma illustrazione. Allora comprese che ogni distruzione corrispondeva sempre, nel pensiero, una possibile ricreazione – parallela, obliqua, diversa.
Come una gomma, la fantasia cancella il sogno precedente e aggiunge quello successivo. L’universo diventa di creta, di cera, si trasforma in un gioco che le dita possono plasmare, cambiare, distruggere. Ma la straordinaria leggerezza del gioco frana nel momento in cui una realtà inamovibile ci mette con le spalle al muro; e allora, delusi dalla nostra impotenza, desideriamo la morte. Non possiamo sostituire l’amico scomparso con un fantasma; né ricostruire libri e manoscritti che il fuoco ha incenerito; né reinventare le carezze che durante la notte ci facevano rabbrividire. Per cui, o cominciamo a vivere partendo da quelle macerie o ci togliamo la vita.
La follia, come l’arte, ha un solo proposito: sconfiggere la morte. Ma gli strumenti si diversificano: nel primo caso dominano le costruzioni del delirio, nel secondo i flussi della metafora.
Un tempo voleva, con lo strumento della lingua, rappresentare le macerie del mondo. Poi capì che non aveva senso aggiungere violenza a violenza, che smembrare il tessuto fonetico per definire lo scempio di un corpo non era scandalo ma illustrazione. Allora comprese che a ogni distruzione corrisponde sempre, nel pensiero, una possibile ricreazione – obliqua, parallela, diversa.
La scrittura è il "tempo di Perseo" – transitoria pausa di libertà tra la morte di Medusa e la restituzione alla Dea della sua testa decapitata. Non occorre che quest’attimo – dove umano e divino si fondono nell’intenzione poetica dell’uomo – perché il testo si compia. Prima o dopo, la scrittura è vana, come il delirio e come la fede.
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