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Fuoricanto (Campanotto, 2000)
Il poeta, come suggerisce Marina Cvetaeva, è medium posseduto da voci. E, in quanto medium, deve ascoltare quelle voci che gli pulsano nelle orecchie o nella mente, dal rumore delle cose al ritmo del pensiero al battito del cuore, consapevole che il suo compito – impossibile ma reale, eterno e inattuale, sempre contemporaneo – è trascrivere quelle voci, tradurre quel “folle bisbiglio” in forma. Ma cosa significa forma, in questo caso? Perfezione, precisione, definibilità? No, significa pregnanza poetica – pertinenza lessicale e adeguatezza metaforica – a quanto di inadeguato e di tormentoso orienta la sua visione. Il poeta, come indica Paul Valéry, è ancora colui che deve vivere l’esitazione fra suono e senso come il turbamento necessario della parola. Il senso, per lui, è il fantasma che procede accanto ai suoi versi – un fantasma da non guardare mai negli occhi se non obliquamente.
[...] Il poeta dovrebbe essere aspro, talvolta sgradevole, sordo alle immagini e ai suoni abituali. Sacrificare la potenza del nome per l’opposto del nome, la forma del discorso per il silenzio sotterraneo che la sgretoli. Custodire questo silenzio ma nello stesso tempo custodire il silenzio opposto: quello che tradisce il non-detto e porta verso una parola imprevista, traboccante o afasica, incontrollabile, che traghetta il lettore nel regno delle analogie.
L’analogia poetica è un’esperienza estatica, non concettuale. Per trovare dei ritmi puri, svincolati dal senso, ci soccorre la musica – spoglia di immagini concrete e di categorie filosofiche – in quanto successione di sequenze. Ma la musica non basta. Per Yves Bonnefoy la musica della poesia – quella assurda, quella vera – nasce nelle parti del corpo che non sono cervello, nasce nelle ginocchia e nelle mani. Poi, da quell’inizio sordo, si orienta, sceglie i suoi suoni.
La poesia contemporanea non ha, oggi, né maestri né linee da seguire. Può, però, proporre una sfida: rinunciare ad appagarsi della sua autonomia linguistica, facilmente raggiungibile grazie alla comune tekné poetica, e rivelarsi come modo – imperfetto ma rigoroso – di “intelligere” il mondo attraverso il linguaggio. Il poeta dovrebbe indicare i modi in cui la materia delle sue parole - i ritmi, i toni, le phonai del linguaggio – convive con la materia del proprio sentire – le emozioni, i pensieri, i significati. La parola poetica, attraverso la discontinua e tormentosa necessità delle sue leggi interne, vive la necessità, altrettanto discontinua e tormentosa, delle passioni che la modellano. Il poeta è chiamato a un gesto, a una visione in cui, fuori dalla parola ma vincolato alle sue leggi, riviva il cortocircuito tra suono e senso come atto di ri-trasformazione e ri-nominazione del mondo.
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