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Sainte Victoire (2013)
La vera montagna
Pensieri di Paul Cézanne (1904).
Nella mia bianca Provenza, da questo capanno fatiscente, nascosto tra i rami e le foglie, al caldo dell’estate e al freddo dell’inverno, il fitto rumore degli uccelli dentro la testa, per la millesima volta dipingo lei, la Montagna Sainte Victoire. Quando ho iniziato? Vent’anni fa, forse. Migliaia di abbozzi, schizzi, tele, disegni. Variavo ora il colore dei boschi ora la forma della vetta ora il punto di vista. Una piccola montagna verde: ma è stata la mia compagna di lavoro e d’estasi. Dipingere non è mostrare un paesaggio, ma scavare lei, in tutte le pietre. C’è un suo centro, insondabile, che mi sfugge; ma io sono ostinato. Sudo, sgobbo, dipingo: riparato dalle foglie e dai rami, posso trovarlo. Solo il lavoro conta: faticare fino all’ultimo secondo di vita, il cavalletto fra baracca e rami. Non è questione di dipingere bene o male, ma di rendere solida un’idea, saldissima un’ombra, convincente una luce.
Dentro il bosco, dipingendo la verde, gialla, lieve, cupa montagna, sfido la sua imperscrutabilità. Fa freddo ma non sento nulla. Oggi uso gli azzurri: mi attrae rendere le pietre simili a forme astratte, dare la sensazione dell’aria. Non mi piace assecondare cose già viste: nulla deve assomigliare a nulla. Qui, nel sottobosco, fa troppo freddo per un vecchio come me.
Una volta la dipinsi come luogo aperto e spazioso, ma ero più giovane. Ne feci diversi schizzi in pieno sole, quasi senza cielo. Nessun riflesso doveva sciupare la luminosità della tela. Nessuna ombra. Luce e solo luce. Chiarore uniforme dove niente si nasconde. Bellezza pura. Ma poi quest’armonia mi stancò. Ripresi a faticare.
Non so mai da quale prospettiva osservarla. La prospettiva corretta potrebbe essere il fondo del bosco. Restare immobile e vedere la montagna a pezzi, che scintilla dalle fessure degli alberi, fra le feritoie dei rami.
Sainte Victoire, mia quotidiana ossessione. Senza programmare capolavori da Salon, senza smettere di osservare, procedo lentamente. Inserisco gli azzurri, tolgo i rossi. Continuamente vedo cose nuove, senza cambiare soggetto. E ogni volta la montagna è diversa: grande e verde, come un colle fatato; lucente e sottile, come un ventaglio giapponese; evaporata in gialli chiari, come un covone sospinto dal vento. Talvolta, appoggiato alla baracca, con i rami che scricchiolano, rido e mi chiedo se non stia preparandomi a morire e se questo non sia il mio autoritratto.
Ma l’uomo deve rimanere nell’ombra: sono le opere che restano, le tele. La biografia è un infortunio.
Io non dipingo, io cerco la verità. Non faccio che muovermi dentro il bosco, con lo stesso affanno di sempre, ma nessuna prospettiva mi soddisfa. Cerco ciò che non so di trovare. Ma nessuno dovrà dire che ho dipinto soltanto una montagna.
La Sainte Victoire è il centro di me, è ciò che sono e sarò.
Continuo a studiare, anche se non credo si debba sapere tanto di pittura. Saranno i critici a spiegare quello che faccio. Io mi sento solo un operaio al lavoro, e rispondo a me di me. La montagna è là, e là resterà, anche dopo la mia morte. Ogni pittore ha il dovere di studiarla con i colori, di renderla visibile. Non credo ai pittori che disprezzano il visibile per le loro fantasie. Quanto vediamo non è mai uguale, e spesso si assottiglia a un velo.
Dove vado? Davvero non me lo chiedo più. Mi lascio abitare da quello che vedo.
Vedere, è fondamentale. Vorrei che accanto a me cento pittori dipingessero la mia stessa montagna e saprei con precisione a chi di loro interessa solo un paesaggio di pietre e chi di loro è un pittore ossessionato dalla vera ricerca.
Intanto lavoro sul rosso e sull’oro, oggi. Non ho bisogno di azzurri. In molti hanno parlato di un’aria calma e vellutata, in certi miei cieli. Ma spero si noti anche l’asprezza: ci sono certi bianchi che mi sembra di scavare dalle mie ossa. Magari non si notano subito, ma nel quadro restano.
Sapere che domani sono ancora vivo e dipingerò la Sainte Victoire nascosto in questo sottobosco mi consola. Mi dico che l’uomo non smette mai di sognare quello che vuole vedere, e quindi non smette mai di vedere.
Ricordo che in passato dipingevo la montagna come un paesaggio fra i tanti, ma poi me ne pentii. Era una cosa piatta, banale. Una semplificazione ripugnante.
Allora tornai al capanno, ficcai bene il cavalletto nell’umido tappeto di fogli mi tolsi l’orgoglio di essere pittore. L’ultimo orgoglio. Abbozzai delle variazioni. Abolii la distanza suggerita dai campi e dall’erba. Dipinsi solo montagna. Montagna pura, senza spazi intorno. Nient’altro che struttura. Sezionai la Sainte Victoire in una serie di cubi colorati cercando di esaltare, con i toni bruni del colore, la consistenza della materia. Cancellai i punti di passaggi – prato, cielo, alberi. Li abolii non dipingendoli. Feci della montagna una visione geometrica.
Ma non mi bastava. Aveva troppo peso. I colori gravavano sull’immagine. Allora scavai ancora., la disseppellii dal suo essere montagna e la costrinsi a dirmi la sua essenza d’aria, il suo conoscere il vento di secoli, i voli di chissà quante migliaia di uccelli. Lo feci semplicemente, il cavalletto radicato al suolo davanti al capanno, modificando appena la tavolozza, senza avanzare di un passo. Ero suo servo. Mi era concesso un unico gesto: dipingere. Un unico soggetto: la montagna. Estraneo a tutti gli eventi del mondo, invecchiai rapidamente, senza accorgermene. Dipingevo il mutamento della Sainte Victoire concentrando l’occhio sulla sua struttura: era come un cristallo, che il verde nascondeva appena. Sentivo nuvole, pareti impervie, sentieri, ma quelle pietre di cristallo la rendevano un magico specchio, che nessuno scalatore avrebbe mai profanato. La montagna è strumento del Nulla. E io, pittore, strumento dello strumento.
Vedere, attraverso la Sainte Victoire, era il mio scopo. Vedere di più. Mi servivo del profilo di un monte per capire il segreto del mio guardare.
A volte, osservandola armoniosa come una cattedrale, mi stupiva che la sua morbida bellezza non venisse da un progetto divino ma da casuali assestamenti della crosta terrestre. Allora mi imposi una sfida: creare una seconda montagna, fatta non di pietre o crepacci o boschi, ma di segni e colori, mutevole e inquieta, soggetta a metamorfosi non più prodotte dai cicli della natura, ma dalla mia stessa mano, dal mio pennello, dai tanti schizzi sulle tele, dalla mia ostinata volontà di creatore di finzioni.
E da allora continuo, senza fermarmi, cercando non so cosa, sapendo di essere un uomo affaticato, un vecchio operaio della pittura. Ma non smetto. Specchio balordo della Sainte Victoire, lavorerò fino all’ultimo secondo, anche se il polmone mi fa male e ansimo, ansimo. Il massimo risultato non è ciò che si è realizzato, ma ciò che potrò dipingere in futuro, fino all’ultimo istante.
Una donna con guanti e cappello, l’aria rigida e vuota, si guarda nello specchio dell’anticamera, un istante prima di uscire: lo specchio le rimanda una faccia marrone, demoniaca, dai contorni confusi; un abito che non è più bianco ma impastato di colori minacciosi, un corpo eretto come un totem.
Una volta pensavo che l’opera fosse il doppio notturno che ci svela a noi stessi e la prova era la Madame Jeantaud di Degas.
Ma forse è anche vero il contrario: l’opera è la forma viva opposta al mio corpo ansioso. Nessuna Madame Jeantaud ma la MIA Sainte Victoire: è lei la sorgente di cui non tollero la luce, che mi ricaccia nel mio guscio cieco, nel mio povero corpo, a dipingerla, la sua luce, come posso. E sono io il suo povero riflesso: una delle povere foglie dei mille arbusti che circondano la montagna.
Ho trovato.
Finalmente.
Ho trovato la mia montagna. Quella vera.
Ora la dipingo.
Bianca, nel cielo bianco.
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