|
Visioni della natura (Corpo 10, 1990)
La stanza di Arles
Da una lettera mai arrivata di Vincent Van Gogh a Théo (1888).
Il quadro che ti spedii sette giorni fa rappresenta la mia camera da letto ad Arles. Guardala bene, Théo. I colori della tela e i colori degli oggetti che mi circondano ora, mentre ti scrivo, sono quelli che vedo. Per quanto tempo sarà così?
Ricordi quando, dal terrazzo della nostra casa, guardavamo i sentieri pietrosi e i campi di tulipani? Un giorno mi indicasti un vecchio contadino: curvo sotto un mazzo di fascine gialle, avanzava con passo lento nel sole accecante di quel mezzogiorno di luglio. Tu soffrivi per la sua fatica. Io la vissi, al punto che il corpo del vecchio mutò: lo vidi sollevare la testa e rizzare la schiena, le fascine gli caddero dalle spalle, lui corse libero nei campi. Quella scena era altrettanto vera di quella che colsero i tuoi occhi. Fra compatire un dolore e condividere un desiderio non sentivo differenze. Forse vivevo più l’immagine del suo sogno che la forma del suo corpo. Avevo visto soltanto ciò che la mia fantasia aveva voluto vedere? Onestamente credo di no. Se in quel momento il contadino si fosse visto morto, lo avrei visto morto, e il mio sguardo si sarebbe congiunto alle braccia immobili, al volto terreo, alla fissità degli occhi.
Io penetro il visibile fino al unto in cui la superficie mi mostra, in trasparenza, le parti buie. Il corpo stremato e il corpo che corre vivono insieme. Non concepisco pensieri astratti: solo forme sotterranee, tese a diventare immagini.
Ti ricordi quel bimbo vestito a festa, nella polvere bianca della strada, un mattino di giugno? Ebbene – divenne corrente, onda del fiume. Forse sognava di tuffarsi e nuotare, forse era infelice e voleva uccidersi: non lo avrei mai saputo. Ma sapevo che la sua mente era l’onda bianca che si infrangeva sulle rive sassose, non il copro rigido che si avviava verso qualche cerimonia.
La mia vita, Théo, dipende da quanto riuscirò a comunicarti ora.
Non ti sto raccontando le allucinazioni di un artista deluso. Ti descrivo il modo con cui il mio occhio percepisce il reale.
Un girono, dipingendo quella brocca spaccata, mi accordi di dire, con il giallo acceso dell’ansa, ciò che l’oggetto tratteneva nei suoi punti d’ombra: il rimpianto di un’acqua che lo colmasse; l’angoscia di essere così, secco e frantumato, peggio che morto. Io percepii il grido di quella cosa. Vidi come desiderasse riempirsi d’acqua, come il suo orlo volesse labbra umane. Ma non commisi l’ingenuità di rappresentare con i colori questo sogno. Dipinsi nell’oggetto un graffio nero, e basta.
Quando tu vedesti il contadino, Théo, e soffristi del suo dolore, io rabbrividii per te, per il tuo difetto di consapevolezza. Non sapevi vedere abbastanza, non potevi vedere oltre. Ne piansi.
Avrei voluto che tu comprendessi il segreto in cui il mio occhio si immergeva: ma tu interpretasti il mio pianto come una banale pietà per quel corpo gravato dalle fascine. Non ci capivamo. Ma tu eri buono. Più alto, più curvo di me.
Non dimentico che sei tu, ora, a pagarmi i colori, a mantenermi in vita.
Se ho dipinto la stanza di Arles lo devo a te. Guardala: è gialla. È lì che vivo. Non condividi la mia inquietudine, la sensazione che da qui emerga qualcosa di strano?
Eppure tutto è a posto: la caraffa, il libro, il cappello, l’asciugamano appeso. Solo i colori troppo vivi – il blu, il giallo, il verde – insinuano il sospetto di un passione incontrollabile.
Guarda bene, a destra.
Vedi le piccole tele appese al muro dipinto? Appaiono protese verso il letto, piegate contro il punto sul quale di solito appoggio la testa per dormire. È impossibile guardare la parete e resistere alla paura. Il muro è curvato da una forza esterna.
Potremmo supporre che, fuori dalla stanza, sibili il vento, che un ciclone sposti le nubi nel cielo stellato. In nessun modo riusciremmo a immaginare una campagna rassicurante, dei prati tranquilli, delle siepi verdi. Stretta da forze naturali, la stanza è chiusa in una morsa, pronta a spaccarsi. Guarda il pavimento: non lo trovi in leggera salita? Quando sono premute, le cose si allungano e si deformano; quando la pressione cala, i confini ritornano normali e la deformità sparisce.
La stanza non prevede la possibilità del sonno: esaspera lo stato di veglia.
Se prima mi piaceva dipingere le spighe tese dal vento, adesso è un altro il vento che mi turba: questa forza invisibile, di cui la camera è l’effetto visibile. Non pensi anche tu che un vortice stia sradicando i platani di Saint Rhemy? Che uscire equivalga a essere uccisi?
Io, Théo, dormo in un luogo dove dormire è impossibile. Da un momento all’altro uno dei quadri appesi potrebbe cadere e il muro curvarsi di più, toccarmi la mano, la spalla, la guancia, e poi crollare con un boato.
Vivo in un luogo reso fragile dal vento che infuria. Le cose che occupano la mia stanza sono oggetti quotidiani. La sedia, solida e spessa: il letto, con l’alta spalliera gialla; la coperta tossa, il tavolo col libro, l’altra sedia. Tute cose che tu, Théo, nel mio quadro, vedrai legate da colori granulosi e densi. In realtà, mentre spalmavo il giallo col pennello, il colore era perfettamente liscio. La granulosità è venuta dopo, per effetto della forza che sta curvando i muri. Non so se sono capace di esprimermi con chiarezza. Mente ti scrivo del quadro che ti ho mandato, della mia stanza di Arles, il mio orecchio teme uno scricchiolìo: basterebbe che la porta cedesse in un solo punto, si aprisse una piccola fessura, e la stanza esploderebbe sparpagliandosi ovunque, riassorbita dal vento che intuisco vibrare nelle cime curve dei platani.
Camera dipinta e camera vera, Théo, sono perfettamente identiche: suono ed eco, eco e suono. Anche se finora è intatta per quanto tempo durerà ancora? Continua a stringersi su di me: potrei dire s’incunea. Le quattro pareti tendono a essere una. Una parete sola: la morte della stanza.
Neppure il sollievo di un fragore: nulla.
Tutto in un grande silenzio, come se Vincent e la stanza non ci fossero naturalmente più.
La cassa che mi hai mandato, con i colori, i pennelli, le tele che ti avevo chiesto, è ancora laggiù, imballata, alla stazione. Non sono andato a ritirarla. Ho avuto paura di uscire. La voglia di dipingere mi ha lasciato le mani. La camera mi ossessiona: questa fossa dove mi è concesso respirare, da cui non sono stato ancora soffocato. Vorrei spalancare la finestra ma temo di vedere, al posto di Arles, al posto delle spighe illuminate dal sole, un deserto forato di crateri. Esito. Premo le mani sul vetro. Resto chiuso qui dentro. È finito il tempo in cui dipingevo nella bufera, il cavalletto fissato al suolo. Quell’ingenua stagione è morta da un pezzo.
Sparita la passione del reale, ascolto solo me.
La mia verità è tutto.
So che, dopo mezzanotte, squassato da una forza sismica, il pavimento si aprirà; le prime fessure spaccheranno il legno; qualcosa risucchierà gli oggetti più cari. Della stanza non resterà che una linea irregolare e serpeggiante, che verrà guardata non come un simbolo di pittura ma come l’esito di una catastrofe.
Ma non accadrà niente finché scrivo a te, Théo.
Durante il tempo della scrittura - ne ho la certezza - sono risparmiato. La mia parola sospende ciò che sarà di Arles – un lago plumbeo e grigio, con porte che affiorano dall’acqua limacciosa, finestre che emergono dagli argini spezzati. Scrivo nella stiva, prima del naufragio. Fra poco si aprirà l’ultima falla e l’acqua spazzerà via il quaderno che pasticcio di segni e parole.
Ma intanto…
Vedi, Théo, quando dipinsi la mia stanza volli che fosse piena degli oggetti più intimi. Conoscendo a memoria le violenze della bufera e le insidie del buio, pretesi uno spazio di quiete. Mi è stato concesso il contrario. Dopo averla dipinta, dopo averla spedita a te, nulla è più sfuggente di lei: un animale acquattato nell’ombra, pronto ad assalirti; un gorgo che sta formandosi; una cascata che diventa vortici. Le immagini del soffitto, della porta, del muro, si consumano, si accartocciano come foglie. La camera si svuota. Le cose, versate fuori, spremute oltre, sanguinano.
La mia parola, che ti cerca, vive a fatica, compresa e contratta. Le frasi escono a stento, soffocate dai muri! Théo, aiutami! Rispondimi!
Le pareti, nel momento decisivo, esploderanno con un boato, oppure ilt etto sarà riassorbito dal cielo e il pavimento dalla terra e al loro posto, nel silenzio assoluto, resterà una traccia chiara, una linea continua, una scia lucente?
I rumori continuano.
Il vento stringe d’assedio la stanza. Vorticoso, flette le spighe. La grandine picchia sui vetri. Il ciclone chissà quali tetti scoperchia.
Arles è invasa e a me non basta più che pulsi il cuore. Vivere la stanza come una corda tesa fra dentro e fuori mi esaspera. Ho un solo desiderio. Che nessuno, oltre me, entri qui. Nessuno deve sapere quello che provo, né Gauguin né Bernard. Li caccerei, se bussassero ala porta. E tantomeno tu, Stai lontano, Théo. Lìmitati a leggere la mia lettera. Ho dipinto i prati come vulcani, i cieli come inferni stellati, e ora sono una particella in mezzo ai vortici: espio quello che merito.
Non ho più colori. La stazione è lontana. Uscire. Camminare senza riparo, sarebbe terribile. Resto qui. Non dipingo più l’erba tesa e il sentiero assolato. Resto, le mani immobili sulle ginocchia. Mi proteggo. Ma è ingenuo proteggersi. Sperare che il vento soffi solo fuori e che all’interno della stanza ci si possa difendere.
La bufera è dentro.
È già dentro.
È sempre stata dentro.
Gli oggetti sono già pregni di vento. Letto, sedie, brocca, quadri, coperte, lo possiedono come una vibrazione, un indizio di metamorfosi. Mi stupisco di vedermi le mani, nel sentirmi il viso. Non sono ancora mutato, ma domani…
I corvi roteano nei campi. Sento il vento. Muoio sotto la coperta rossa. Tra poco dovrò terminare la lettera e correre alla posta. Come faccio a non uscire? (Chissà, forse il ciclone è appena inizato). Alle stelle che vorticano nel cielo si aggiungerà la mia. Non esisterò più, come talvolta ho desiderato, per togliermi questo masso dal cuore.
Io non voglio la mia vita. Voglio la vita della cosa. Quelle spighe, quei campi. Forse, domani i corvi. Non posso che uscire dalla stanza.
Devo spedire la lettera a te.
Devo avere coraggio.
Devo uscire. Vedere se deliro oppure no.
E popi, se è vero che la tormenta mi schiaccerà, potrò accadere dentro la stanza come dentro un campo di grano. Dov’è la differenza? La terra, il cosmo, il fiume, sono la mia stanza.
Ciao, Théo, ti abbraccio.
|