11 ottobre 1585. Da Carlo Gesualdo da Venosa a Torquato Tasso.
Caro Torquato,
comprendo il tuo tormento. Ho provato anch`io una pena simile alla tua, anche se non persi la ragione. Vivo a Ferrara fuggito da Napoli. Uccisi due esseri umani: mia moglie e il suo amante. Cosa aggiungere? Il mio secondo matrimonio con la figlia del principe è stato solo una maschera sociale, una garanzia di esistenza.
Io sono ancora quelle due morti. Non ho altro di mio. Faccio madrigali per caso, perché nel mio ricordo c`è la profondissima tenebra di quel delitto. La musica è l`unico modo di svelare il mio crimine senza raccontare un solo particolare della scena, senza addentrarmi in ricordi proibiti, vertigini, incubi, oscurissime colpe. La musica, fitta di cromatismi ma astratta, me lo consente. Quando le note risuonano, rispondono al pianto, senza svelare l`oggetto del pianto; sono come sassi, se li tocca il vento.
Perdonami. Dire di questo a te, che hai sofferto follia e mancanza di senno, è impudenza, e mi affanna. Ma solo il mio Torquato, poeta di travagli, mi comprenderà, se la sua vita, come la mia, è ombra che viene dall`ombra.
Carlo Gesualdo principe di nulla