Un caso clinico
Lettera di Roberto Bazlen a Eugenio Montale (ottobre 1960)
Caro Eusebio,
capisco che è ineducato scriverti, dopo tanti anni, e non per segnalare la geniale opera di Svevo o l’intollerabile poesia di Saba, ma sei l’unico amico a cui possa rivolgere questa singolare preghiera: scrivi un articolo, un saggio, un pezzo come vuoi – ormai sei celebre tutti ti ascoltano – e
intima il silenzio su di me.
Il sipario comincia appena ad aprirsi, ma già si discute troppo della mia persona e dei miei gusti. Si vocifera di quaderni, taccuini, romanzi, che terrei segreti. In parecchi fanno assurde fantasie sulla mia scrittura, di cui sorriderebbe lo stesso Freud. Se potessero, sognerebbero la mia opera omnia. E ne conosco, di imbecilli, che ricavano, da una mezza frase, da una mediocre letteruccia, un caso clinico, e frugano nelle carte alla ricerca di chissà quali tesori nascosti.
Non lasciare che frughino, Eusebius. È un fatto di sciacallaggine: come si strappano i denti d’oro ai morti, così ai presunti scrittori... Non lasciare che si cerchi niente, visto che non c’è niente da trovare: ma si sa, se cercano in tanti finisce che qualche conto della lavandaia venie fuori, qualche mucchio di fregnacce che possono solo disonorarmi.
Fra poco non sarò più vivo e non potrò oppormi alla stupidità degli altri. Cosa posso fare per essere difeso, se non scrivere ai vecchi amici?
Proteggimi dalla letteratura, tu che sei sufficientemente cinico per farlo. Le tue quattro poesie poco angeliche e poco italiane le hai consegnate al mondo. Fa’ che io consegni il mio silenzio. Persuadili a lasciarmi in pace, a tenermi fuori. Fammi restare nascosto fino all’ultimo, Eusebius.
Io sono un lettore. Uno che, nel treno, con la febbre a quaranta, legge il racconto di un persiano visionario, uno che giudica Musil e manda a quel paese Bataille e Blanchot. Una razza rara, incomprensibile – tipo quel contadino che si mette a guardare i raccolti e se ne infischia della semina.
Fermali comunque, Leggo, fumo, vedo, film. Cuscini e poltrone mi conoscono meglio degli uomini. Cos’ho fatto di male per meritarmi che ficchino la loro lente sui mie i quaderni di scuola? Non voglio essere niente, neppure un caso.
Non c’è un caso Bazlen, altrimenti non esisterei. Possibile che in questo paese non si riesca a leggere un libro in santa pace?
“Poiché so, non dico”.
Tao?
Tuo Bobi Bazlen
La repubblica delle nuvole
Ritrovato, nel 1985, in un gruppo di lettere indirizzate da Bruno Schulz ad Ania Plockier, databili agli anni 1934-1935.
Nella repubblica stratificata e sfuggente che domina le cime delle montagne – tra fruste che sgusciano e guizzano via, palazzi fatati e silenziosi, fortezze che durano per quattro secondi nel cielo azzurro, castelli dirupati che balenano con feritoie e torrioni, draghi dalla bocca aperta che avanzano con andatura calmissima verso sfingi piccole e diaboliche, in una catastrofe silenziosa e imbizzarrita – nella repubblica bianchissima delle nuvole avanzano soffi scuri, profondi, mutevoli, spingono cirri e nembi in doppie e tripli cieli, ora grigi e affondati nel sonno, ora rosei e vaporosi al risveglio; non smettono di camminare e correre e scendere e salire, o inviare storie silenziose nel cielo, quelle di fanciulle stregate e dormienti, di cavalieri fusi a cavalli in volo, di principesse grasse che si trasformano in mostri riccioluti, zoccoli scalpitanti, maiali, cinghiali, tigri, in una selva di avamposti, barriere, muraglie, alberi fruscianti che vedono ora sfrangiarsi il tronco ora sventrarsi la chioma e perdono le radici in fili sottili, in lance rosate, in baldacchini dorati dietro a cui si nasconde un sole velato, livido, trasformato in luna da tregenda. E l’occhio scrive in quegli arazzi mutevoli tutte le forme che immagina, spezza gli argini, scaglia i suoi fiumi traboccanti nel nulla agitato dalle correnti d’aria; e in quel vuoto inafferrabile montagne di nuvole si slanciano contro montagne di pietra e le trasformano in crateri, crepacci, dirupi, soffi di vento; e masse d’aria si radicano e sradicano, e dove appaiono tutto scompare, e dove scompaiono tutto riappare; ora sono inchiostro nerissimo, pozzo scuro e stregante, e poi sono un niente che si sfrangia in fumi sottili, come se invisibili soffiatori soffiassero nella sostanza delle nuvole e la scomponessero in mille forme e tutta l’aria traboccasse in una scrittura frantumata, con i segni che diventano briciole, gli alfabeti schegge, e le nuvole, lassù, morbide e alte come cuscini che nascondono diecimila precipizi e milioni di galassie e un numero inafferrabile di comete. Nuvole e nebbie rendono i volti giovani e freschi. A guardarle, si diventa felici, si riscopre il geroglifico del soffio, l’idea che l’aria è solo un abisso di analogie, di richiami, di movimenti; un turbine sereno e incessante, dove cirri veloci e sottili corteggiano nuvole lente e massicce, e si guarda il cielo, non quello basso e terreno, greve, fosco di pioggia, non quello sublime, dorato, interminabile, in cui si accampano le visioni della mente, ma un cielo intermedio, in moto vorticoso, preda del vento e dei colori; e si chiudono gli occhi e si pensa di dipingere ciò che non si potrebbe: il fuoco, i raggi di luce, la folgore, tutto scolpito nel bianco e nel nero, e la mente entra nelle nuvole, le spoglia dei colori vani e le rende vapori tracciati oltre ogni limite, arabeschi di forme, disegni fatti con l’acciaio della riflessione; non è spaventata dalla morbidezza dei cieli e dall’inafferrabilità dei fumi, non ha più quella sconfinata paura, quella prodigiosa astrazione; e l’uomo allora vive nelle nuvole, abita con le sfingi e con i draghi, con tutti gli animali che corrono nel cielo e non smettono di creare quel regno illimitato, anzi quella repubblica sterminata, senza nessun re e nessuna legislatura, quell’anarchia felice e vertiginosa dove il vento disegna tutte le forme e l’occhio scrive tutte le immagini, e non si sa mai chi stia creando in quel momento, a chi appartenga il potere magico della creazione; l’artefice è immerso nell’artificio, il vento soffia nelle dita e negli occhi, e noi ci incamminiamo finalmente verso il nostro segreto; quel fuoco, lassù. Quella lancia o piuma o stella o punta o non sappiamo cosa che ondeggia, si intreccia, sparisce, nel palcoscenico silenzioso dell’aria, nel padiglione azzurro del cielo, dove soffi delicati sollevano le foglie e le allacciano in improbabili danze, e tutto, alla fine, è in potere della grande e soprannaturale eresia: il sogno.