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L’ultimo viaggio di Sindibad (Pirella, 1985)
A voce alta, con frenesia e passione, nel silenzio assoluto dei presenti che quasi non respiravano, Sindibad il marinaio narrava le sue avventure straordinarie. E non appena lo coglieva la stanchezza e le fiamme dei bracieri davano segni di affievolirsi, i servi si affrettavano a ravvivarla con delle grandi torce mentre lui si rinfrancava con una coppa di vino che Madhyya gli porgeva, premurosa. E subito riprendeva a raccontare: e più descriveva gli avvenimenti e le meraviglie incontrate, le pene sofferte, le prove superate e quanto felice fosse stato di questo e altrettanto dei pericoli e dei patimenti subiti se, appunto, ora poteva stare lì a raccontarli e a riviverli facendoli rivivere negli occhi e nel cuore degli ascoltatori, e più gli pareva che Sindibad il facchino s’ingrigisse, si incurvasse, vinto da un peso invisibile.
Al settimo giorno, Sindibad smise di raccontare. Le ultime sillabe gli morirono sulle labbra in un bisbilio incomprensibile, e pallido e stremato si abbandonò sul divano. Di colpo si spensero le luci festose del palazzo, l’acqua delle fontane cessò di zampillare, si ritirarono le pesanti cortine come a fine spettacolo e gi spettatori – increduli, ammirati, invidiosi, stupefatti e chi soltanto felice di quanto aveva udito e imparato - tornarono casa. Le mogli e i figli si erano addormentati da un pezzo, anche Mahdiyya si ritirò insieme ai servi.
Nell’immensa sala, deserta e buia, l’uomo di mare e l’uomo di terra restarono soli, l’uno di fronte all’altro.
Il girono dopo, quando i servi andarono a svegliare il loro padrone, scoprirono, rannicchiato nel letto, un vecchio dal viso rugoso con una grande gobba. Era morto. Grigio, lo specchio della stanza non mandava più nessun bagliore.
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