Arturo T.
Non solo gli uomini e gli alberi, ma anche le case, tutto. Tutto è cambiato. Il ritmo del giorno, il ritmo della notte. Niente è più allo stesso posto. I confini sono spostati. L’aria puzza, dottore. Il sole è sott’acqua. Il mondo è largo, bucato. Io non so più dove appoggiare i piedi. È un’agonia della mente. I cespugli sott’acqua, la terra così piatta. E io lo sento, dottore, è stato mio padre, da quando ha sradicato quel platano, è colpa sua, tutto ha cominciato a sprofondare. Tutto nel sottosuolo. Tutta la roba viva. Tutto. Io no, io sono quassù, sopra il terreno. Ma non è solido. Non lo è, dottore. Il cielo scucito, le rocce slegate. I bambini tirano il fiato da mesi. È la fine, la fine, la fine. Un’agonia della mente. Sono tutte vigne allagate. Vigne allagate dove vagano i morti. Lunghi, lunghi vigneti. Ma, là sotto, la roba è ancora viva. Sopra, tutti pezzi di piante, quel dannato buco del platano sradicato da mio padre, e l’acqua che cade nel buco, goccia dopo goccia. Un’agonia della mente. Voglio delle asce, dottore, per creare nuovi piloni. Questi sono rotti, crepati. Nuovi piloni di legno di platano. Voglio delle asce per costruire piloni nuovi, robusti, oppure cielo e terra s’incolleranno, s’incolleranno, dottore, uno si appiccicherà all’altro, uno dentro l’altro, uno... dentro... l’altro... terribile... è la fine, la fine...
(un’agonia della mente)
Fausto C.
Sì, dottore, lo so, quello che ho fatto non è bello. Ma non è colpa mia, questa mania di parlarsi, tutta questa gente che non fa che tenere quel coso attaccato all’orecchio mentre cammina o sta sull’autobus o va al bar e parla solo con quel coso...Io già non posso sopportare il campanello della porta e del telefono di casa, mi interrompe il flusso, quel bell’incantesimo che ho dentro di me dove posso ascoltare le voci dei miei genitori morti e tutte le voci della mia infanzia.
Fausto, è pronto! - gridava mia madre - quella sì che era una bella voce, mentre io stavo giocando o facevo i compiti E poi la sentivo anche cantare
Mi chiamano Mimì o
Un bel dì vedremo... E anche mio padre, poverino, che quando mi sgridava non alzava mai la voce e poi la voce del mio cane, diversa da quella di tutti i cani della terra. E invece - driiin - il telefono rompeva l’incantesimo. Mi arrabbiavo moltissimo. A casa mia adesso me lo sono fatto staccare. E questa gente perduta dentro quel coso, che non si accorge di nessuno, se vive o se muore. Lo so che glielo hanno detto, dottore, ho cominciato a saltare addosso alla gente e a strappare loro di mano il coso, a sbatterlo per terra. Ma non mi pento. Stavolta, le giuro, la colpa non è stata mia. Me ne stavo tranquillo su una panchina ad ascoltare le voci di mia mamma, di mio papà, del mio cane e quelle voci che hanno solo la campagna e il mare, che ha il vento, ad esempio, o la pioggia o gli uccelli. Stavo lì tranquillo sulla panchina dei giardini pubblici, alle due del pomeriggio, mi pare, quando uno si è seduto vicino a me e fin qui niente di male. Ma poi quello ha cominciato a squillare e lui ha risposto con la voce sempre più alta, sempre più alta. Basta! Gliel’ho strappato di mano quel maledetto coso, gliel’ho spaccato sulla testa. Sì, è finito all’ospedale, ma se lo meritava,
se lo meritava. Sarei pronto a rifarlo.
(il coso)
Gianna G.
Ma cosa vuole che le dica! Aspetto. Invecchio, e aspetto. Non riesco più ad incazzarmi bene, come una volta. Quando potevo guardare le persone in faccia e gridargli la verità come è giusto gridarla, se ti fanno delle stronzate. Spero solo che il
dio boomerang ritorni. Lei mi chiede chi è il dio Boomerang? Mi fa ridere, dottore. Ma la mia malattia, il mio disturbo bipolare, come lo chiama lei. Un giorno urlo e protesto, prendo la gente per la gola, maledetti stupidi che ti vogliono mettere a posto la vita. Un giorno sono a letto, con pane, pizze, acqua, sparsi dappertutto, tanto che neppure riesco a muovermi. Ma, se ora i giorni sono tutti giorni così, e se sono sbattuta sul cuscino a dormire, mangiare, vegetare, il dio non torna
. Ha sempre la stessa faccia: questa mia brutta faccia vecchia. E sempre la stessa voce, stridula, come quella di un’oca. No, non dica di no, dottore. Mi lasci parlare. Almeno, quando protestavo davanti alla scuola che mio figlio era sballottato qua e là come un pacco, e gridavo gridavo e voi cercavate di calmarmi con i sedativi, avevo gli occhi vispi, la voce alta e forte, per rompervi le scatole. Guardi che la vita è nel fuoco dentro che ci brucia, non in questa merda di letto a vegetare. Si, lo so, dovrei partecipare di più alla vita della casa, con le altre compagne. Ci sono ragazze giovani, sofferenti. Io potrei aiutarle, con la mia esperienza di malata. Chi ha sofferto, può dare una mano a chi il dolore lo vive adesso. Ma io sono coriacea. Una testuggine. Nessuno mi smuove. Spero solo che ritorni, il mio dio boomerang, ma
con l’altra faccia, quella giovane, e
con l’altra voce, quella che squilla come una tromba e caccia via il sonno e mi chiama col mio nome
Giannaaaa e allora mi sveglierò: Via da questo letto, da questa casa grigia, pronta a dare battaglia a tutti i poteri e tutti gli uomini, contro i figli stronzi e i mariti mosci, dannazione! E la finirò di ingoiare i farmaci della quiete!
(il dio boomerang)
Osvaldo G.
Si ricorda di me, dottore? Sono venuto da lei tanti anni fa. Ero proprio fuori: mi ricordo che il problema di tutto fosse mio padre, che era un violento. Infatti ho sempre odiato l’autorità. Si ricorda quante volte sono finito in galera per insulti o contestazioni o anche botte verso le forze dell’ordine. Ho menato e mi hanno menato. Ho menato anche mia moglie e mia figlia,i miei amici e nemici, non potevo farne a meno. Lei mi ha curato, ho seguito le sue cure, preso i suoi farmaci regolarmente e infatti ora sono un po’ più calmo. Ma ho anche escogitato un sistema per non farmi più incastrare e ho pensato di venirglielo a dire. Ecco, si tratta di questo: quando sto per menare, e sono lì bell’e pronto, mi ricordo di lei che mi ha parlato dell’attimo prima, di poter riflettere un attimo, di mediare e mediare...cioè di prendere tempo. Una cosa difficilissima! Ma un pochino ci sono riuscito. Sa cosa faccio? Mi metto in tasca la fotografia di una tigre con le fauci spalancate. E’ spaventosa, l’ho ritagliata da una rivista. Quando mi fanno incazzare alla grande e sto per reagire, per saltare addosso al rompicoglioni, io... non sempre, però, solo quando ci riesco, tiro fuori dalla tasca la foto della tigre e la mostro. In silenzio. Ma sa che anche l’altro si calma anche lui?
(la tigre)
Maurizio F.
Vede, dottore, ho accettato l’intervento, pur riprovando i sintomi giovanili della mia psicosi, conseguenza proprio di un remoto ascesso dentario. Mi hanno asportato l’incisivo - allora era un molare - e ho accettato, sorridendo con deferenza. Ormai sono un filosofo a tempo pieno, dottore. La mia vita è dignitosa. Anche se scompaio per giorni, anche se sto sotto la pioggia degli acquazzoni, anche se perdo pagine e riflessioni, non importa: la mia indole genetica è buona, nonostante le assurde peripezie dei miei dolori. So di essere un buon comunicatore anche se il mio pensiero appare strano. Ci sono forme del mondo in sintonia con la mia mente e altre asintoniche, atonali. Accetto la contraddizione. Ora sono qui, accanto a lei, Riaccendiamo il nostro fuoco sacro. No, non mi cambi la terapia: le gocce vanno bene. È un bellissimo e lento rituale, in armonia col mio esile metabolismo. Dice che i farmaci sono stampelle per non inciampare? Si inciampa anche con le stampelle. Ma io cercherò, come posso, di rispettare le vite altrui. Michela insiste, lo so, da brava psicologa, che mi lavi. Ma lavarmi ogni giorno è la vana impresa del guerriero stremato contro il vittorioso esercito dei giovani, impudenti batteri. Perché si preoccupa per me, dottore? Vedo che ha proprio bisogno di parlarmi. Non dubiti: sarò da lei fra tre giorni, stessa sedia, stessa ora.
(il fuoco sacro, 2)