Chiara Daino
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14 Dicembre 2009 21:53:23
Il celeste “reato” della solitudine


A DAMA(in)SCENA


La scrittura di Chiara Daino, oltre i limiti della mera comunicazione, sembra smarrire (su piani di realtà) il proprio destino. E’ come un sussulto all’interno del moto perpetuo innescato in un movimento centrifugo di perdita, accelerato, inesorabile, che si conclude poi con il tracollo definitivo. E’ il disastro della scrittura. Ma, al tempo stesso, la sua più viscerale emancipazione. Quando il tèlos della trasmissione di un senso cessa di esercitare il suo potere opprimente, e viene messo in forse il centro di gravità in forza del quale il significato finiva per prevalere – nella forma del “messaggio”, del “racconto”, del “contenuto” – allora la scrittura si ripiega su se stessa. E in questo raccogliersi su di sé mette definitivamente fuori causa il significato e il suo indissociabile alleato: il Senso. E’ la scrittura del disastro, irreligiosa e irredimibile: nessun legame esteriore la riduce più a veicolo di senso dato, a portatrice di significato ulteriore che, per quanto eterogeneo, si incarnerebbe tuttavia in essa deponendovisi come nel suo alveo più naturale. Non c’è più nulla da cercare al di là della scrittura. Tutto si gioca nella pura immanenza dei segni, superficie abissale. Espunto ogni Fondamento di senso (Grund) non resta che librarsi sull’abisso del Senza Fondamento (Abgrund). Sine substantia, sine lege.
A quel punto un altro rapporto si instaura tra che scrive e chi legge. Scomparsa la dimensione comunicativa, la radiosa partecipazione ad un senso comune – metessi di qualcosa di ordine superiore ad entrambi, e che proprio in virtù di tale statuto di trascendenza può mettere ciascuno in “comunicazione” con ciascun altro – resta la complicità. Il lavoro del senso affonda, la seduzione dei significanti affiora. Significanti che nulla significano. Alla parola è così consentito di raggiungere il luogo utopico ove lo sradicamento da ogni sede o punto di riferimento obbligato diviene irreversibile. Impossibile, ormai, frenarne la spinta a varcare ogni confine, a spingersi sempre più oltre in un moto di incessante erramento. Verso regioni che nessun orizzonte può contenere, e nessuna demarcazione racchiudere entro i termini di un territorio circoscritto una volta per tutte.
Se c’è esilio dal senso, dalla rassicurante dimora in cui la parola riluce, e si dà esodo verso oltre ed altro – senza Nostalgia – allora alla parola si dischiude l’altro versante. Dimissionaria dal Senso, essa si svolge allo spazio del Neutro. Dall’Uno all’Altro. E inabissandosi nella Notte in cui risuona il silenzio delle sirene, ritrova la propria estrema prossimità alla morte. Zona insituabile, sottratta ad ogni coordinata spaziale. Vuoto vertiginosamente spalancato su se stesso. Ed è ancora un rapporto di complicità quello che pare stabilirsi tra la parola ed il suo sfondo silenzioso: la pagina bianca, che nulla dice di per sé, destinata com’è a fare da muto supporto al segno che su di essa si (i)scrive, in un tacere estraniato in rapporto a un discorso che pare svolgersi altrove. E tuttavia ineliminabile presenza/assenza, allo stesso modo in cui il silenzio è lo sfondo necessario sul quale la voce deve potersi stagliare affinché qualcosa si oda. La pagina bianca e il silenzio intrattengono una relazione essenziale in ragione della loro indifferenza da ciò che sul loro corpo si (i)scrive. Ritraendosi nella quiete del loro esser muti consentono alla parola di prendere la parola. Un tacere che acconsente. Assenso intriso di assenza. Ma un tacere ben lontano da ogni mutismo. Tacere risuonante nella complicità tra parola e silenzio, che barluma nel segno imbevuto del bianco della pagina.
Arrischiata nello spazio mortale del Neutro, la scrittura ormai fuoriuscita dall’ordine del Mondo si inerpica nel silenzioso versante della pagina. Un altro luogo emerge. Sul cui suolo la catastrofe celebra il suo festoso sacrificio: gaia scrittura del disastro.

sempre più chiara

(infine, la tua Scrittura...): lasciala “indecisa”, sfumata alla vista e accecante ad un tempo, come il sole, come colei che gioca, che crea, che resiste (alla morte, alla stupidità, al volgare del presente, al dolore)

innanzitutto, bambina e irresponsabile. Non le si chieda ragione del suo fare e disfare; non si cerchi di interpretarla fissandola nella gabbia rassicurante di una definizione o di un genere. Si provi, piuttosto, a farne esperienza, a stupirsi d’essere, d’essere ancora...

essa lotta, dal verbo “luctari”, che appartiene al dominio semantico dell’atletica: niente agonismo belluino, fanatico e capi – talista, qundi, ma sovrano divertissement dei corpi. La vera lotta è “coitus interruptus-ininterruptus”, rivoluzione permanente, altalena instancabile di “plaisir” tantrico e di “jouissance” sconsiderata: car la mollasse, ici, n’est que l’ecume de la force, una crête qui tremble au vent, come sorrideva anarchico e rigoroso nella sua danza di parole Antonin Artaud

essa “conquista”? Conquerere, ovvero cercare, raccogliere, requisire. Conquista indica l’atto e il possesso. Tutto ciò non ti appartiene. Cum – quarere: cercare insieme, chiedere, toccare il fondo amabile e raccolto dove possono convivere conversazione e ascolto.
Fare conquista, sedurre...



Mirko Servetti (per Siamo soli di C.D.)


E sia: grazieterno Mirko, per la mappatura delle cicatrici chiare...


P.s. e con Lobo, come Lobo: "A me piace fumare. È la cosa perfetta da fare DOPO. Cioè dopo che hai bevuto... o menato... o skopato... Katz, mi piace talmente che fumo pure dopo aver fumato!"
P.s. II e prego notare come, per una volta, siano le di lei labbra senza sigaretta stretta... Nel sorriso che.
P.s. III si ringrazia Maurizio Cerutti ch'immortalò

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ARCHIVIO STORICO

14 Dicembre 2009 21:53:23
IL DISASTRO DELLA SCRITTURA/LA SCRITTURA DEL DISASTRO


12 Dicembre 2009 14:52:05
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09 Dicembre 2009 01:10:49
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