CORPI DI CARTA CHIARA |
26 Aprile 2015 - IL LETTORE DI PROFESSIONE RiTratto di Dama [Opera fuori catalogo, biro nera e rossa] di Milena Bocchiola
«Vado a farmi il cielo». Una piccola frase in chiusura di un paragrafo, oppure un micro-paragrafo a sé stante. Un’espressione semplice (aperta a interpretazione vagamente complessa – e malpensante) che va oltre il senso della stessa (e delle parole), esortando ad agire più che a riflettere. La scrittura di Chiara Daino appare così ai miei occhi: limpida nel suo essere [creativo – inteso, essenzialmente, nel senso di fase di creazione] ricercata. Follia? Non credo. E proprio perché si tratta di parole che si fanno sentire; e per il lettore è questo ciò che conta. Che per la costruzione di una frase sia stato necessario uno sforzo di pochi secondi, oppure di ore, oppure di giorni, che si sia voluto andare a scavare in un qualche mito greco o accadimento storico, o proporre un riferimento alla cultura cosiddetta pop, cosa (o quanto) può importare/interessare al lettore? Il lettore dovrebbe essere stimolato a provare una sensazione di caldo o di freddo da quella frase. Il suo piacere dovrebbe essere quello di abbandonarsi a essa, senza lasciarsi imbrigliare da un vuoto significato che non ha nulla da narrare. Che poi riferimenti/citazioni e termini sconosciuti possano far scattare la molla per addentrarsi in una qualche forma di ricerca personale ben venga, ma non è quello il fine. Che la scrittura di Daino nasca da riflessioni/perversioni contorte che non sfociano in trame lineari da seguire è vero? Può darsi di sì e può darsi di no. Ma il suo mostrarsi nuda e cruda in versi e in prosa, in giochi di parole e in incastri di accenti non è cervellotico e non è filosofico (e direi anche che è ben poco ermetico, anzi). È un’esortazione a esprimersi e vivere. Io lettore non dovrei soffermarmi sulla comprensione di un testo (specie quando – come nel mio caso – non ho gli strumenti adatti per farlo), ma lasciarmi soltanto guidare dalla direzione che intraprendono i segni. Io lettore non dovrei preoccuparmi di pensare cosa abbia pensato l’autore nel momento in cui ha scritto, oppure (peggio ancora) pensare di comprendere l’autore. A me lettore deve interessare solo capire se mi piace o meno ciò che sto leggendo. E io ho scoperto che leggere Daino mi piace, anche nei passaggi di cui non apprezzo il contenuto, anche nei passaggi che mi risultano più indecifrabili [per ignoranza personale – che non mi va di colmare], perché sono di fronte a una scrittura scalpitante e palpitante. E si ritorna al cielo, sì, perché (come dicevo all’inizio) l’andarsi a fare il cielo è un’incitazione al non essere passivi: è un invito a farsi il proprio cielo. Perché il cielo sopra Daino è lo stesso cielo sopra ognuno di noi, ma un cielo nero può essere affrontato come fosse, se non proprio limpido e solare, quantomeno diverso, quando si sa cosa si ha intenzione di fare, quando si sa come riuscire a essere veri. Giuseppe Vuolo
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