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18 Giugno 2018 - Cotonfioc Festival 2018
Poeta non è – come disse un poeta di un sommo poeta – un elucubrato participio passato.
Che male c’è nel credere che io sia veramente guarito? Vorrei solo che tu guarissi, anima. Ecco tutto. Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine. Ed è questo chi soffre ed è questo che s’offre al pubblico. Ed è questo che offriamo all’ascolto – che chiediamo attento e benevolo perché poeta non è un elucubrato participio passato.
E non c’è più ragione,
e non c’è più follia,
e non c’è più presente
e non c’è più passato.
Non so dare un motivo al mio pianto.
Anche oggi il cielo
ha pianto tutte le sue lacrime
guardando gli uomini distruggersi la vita.
A poco a poco mentre sotto la tenda
a spicchi colorati di un circo
Un pagliaccio ha smesso di ridere
Incontrando gli occhi tristi di una bimba
disperata, una bimba che nessuno
ha mai amata.
Non so dare un motivo alla mia lacrima.
Papà, guardavo il sole
ed il sole cadeva,
poi guardavo la luna
e cadeva anche lei.
Il sole mi ha parlato
di dove va di notte,
e ancora di altre cose
che adesso non ricordo.
Ricorderai, mi ha detto,
e dirai a papà.
La luna invece no,
restando zitta zitta
mi è saltata qui in grembo
come tremando tutta,
facendomi il solletico.
Poi è saltata via
rotolando lontano,
e intanto ripeteva
“Non dire niente a mamma
a mamma a mamma a mamma…”. Papà, che devo fare?
Lo so che al mondo esiste tanta gente che ha sempre detto quel che devo fare
ma poi di me non gliene importa niente
se sono solo e non so mai con chi parlare
e giro a vuoto non sapendo dove andare.
Mi dicono: «TU DEVI stare buono… NON devi più fumare sigarette»
ma intanto se la godono in gran tòno.
Non gliene frega niente se ho il morale fatto a fette
perché nessuno mi dà mai quel che promette.
Che brava gente c’è!
Pensare che non ho esigenze strane, ma ho solo una gran voglia di fare,
per questo io vi canto una canzone, sperando che mi stiate ad ascoltare.
E non venite a dirmi che sono cazzate
perché sono bombe atomiche disinnescate
dentro di me.
Le cose che vorrei che tutti quanti sapessero della mia vita dura,
che faccio per tirar avanti il carro,
tanto ch’a volte son preso da una gran paura
se chi mi parla fa capir che c’ha premura;
chissà perché?
Vorrei che mi venissero a trovare i miei fratelli – Cesare e Roberto
e insieme tante storie raccontare:
storie di sbandi…
E quella volte che un “ESPERTO” disse:
i vostri problemi li risolvo – certo!
E poi fece: “ciao!”
E salutare è salutare: malati gravi si è per definizione.
φ
Che male c’è nel credere che io sia veramente guarito? Vorrei solo che tu guarissi, anima. Ecco tutto.
Ricordi?
Era Settembre. Piangevano tutti.
E io me ne stavo lì,
a contemplare il cortile
con uno sguardo pallido e assorto
senza progetti per l’avvenire.
Era una giornata nuvolosa,
ma le nubi non turbavano
quell’allegro chiacchierare:
sai da grande, l’astronauta,
sai da grande, l’astronave…
Grandi progetti per il futuro,
per un bambino di sei anni:
che stupido orgoglio,
diventare grandi.
Volevo rimanere così
così per l’eternità
fare l’astronauta? Ma…
E la maestra, in mezzo al frastuono,
saluti di qua, saluti di là
“bambini in classe, è tempo, al lavoro!
Diventate grandi, orsù, si và”.
Ma QUALI progetti, ma QUALI opinioni?
Lasciatemi stare. In cortile. Da solo.
Io non piangevo. Voi – tutti campioni?
Ma io voglio altro, voglio il volo.
Volare su in alto col pensiero.
Questo mi basta. Mi basta davvero.
“Lasciatemi stare. Ancora un momento!
credete davvero, credete davvero
credete all’astronave! Io credo al Tempo!
Ho solo sei anni, lasciatemi stare.
Voglio volare, volare volare.
PIANGETE-GRIDATE! Per voi è la fine!
Starò qui da solo,
da solo in cortile.
Io vado in alto, io salgo, io volo!
Guardarono tutti, la maestra per prima.
Era tardi.
Diventai grande quella prima mattina.
“Viva in bocca ad un morto
dolce dolce pastiglia.
Uno più tre per tre,
fanno un bel parapiglia.
Sia ragione sia torto,
vento o neve, sai te!
Papà, cosa vuol dire?”
“Tu l’hai sognato, piccola.
Rime e figure passano
di nonna in mamma in figlia,
da bocca a orecchio scendono
per cascatelle e chiuse
fino a stagni pacati.
Stan lì in fondo per anni,
se non ti tuffi o scivoli
non te ne giunge niente,
solo di quando in quando
qualche bolla risale
e chi è attento la sente.
Pazienta, capirai…”
“Quando sarò più grande?”
“… quando sarai più grande.”
Per tanto tempo i tuoi occhi
Mi hanno guardato senza vedermi,
per tanto tempo.
Ora che è infranto
il sipario che ci separava,
ora che la mia follia
come un fuoco selvaggio
ha sciolto il gelo
che ci aveva ibernati
dimmi cosa vedi.
Io non posso saperlo
io non riesco a sapérlo.
Sei tu che devi dirmelo.
Ma se ancora temi
di ferirmi a morte,
allora usa la tua arma,
usa il tuo silenzio
che è timore
e speranza insieme – per me.
Io aspetterò.
Ogni giorno che passerà
cercherò di riconoscermi in te,
di vedermi
come in uno specchio,
fino a raggiungere
da sola, con una forza
e una fiducia riconquistate,
la verità.
Tu dici che la verità
non esiste.
E allora, io ti prego,
per me, per la mia vita futura,
devi inventarla.
è forse l’unico dono
a cui io credo
di avere diritto.
Occultare un lamento
dare vita a un incanto.
Parole senza senso,
che mi fanno casino nel cervello
tanto tanto.
Ho trovato a stento
la rima con incanto
e è finito tutto in un casino.
Proprio così, Professore: un casino.
Al punto in cui stavo per spaziare,
per prendere il volo
in un cielo a dir poco inquinato,
mi sono accorto di non saper volare
di non voler volare,
di non aver voglia di parlare di incanti;
mi sono accorto
di non saper volare
voli che sono acrobatici,
di avere da dire cose serie,
di voler fare un discorso mio.
E il discorso, Professore, è questo:
che i casini nelle mie poesie,
le parole come m-e-r-d-a p-ut-t-t-an-a
(insomma, andatevele a cercare!)
saltano fuori proprio
quando perdo il filo del discorso.
Quando rischio di sollevarmi da terra,
dimenticando ciò che intendevo dire.
Allora: p-u-t-t-a-n-a, c-a-s-i-n-o, m-e-r-d-a, c-a-z-z-o.
Con una parola,
una sola di queste,
rimetto i piedi a terra,
riesco a proseguire il discorso
e, qualche volta, portarlo a termine.
E tutto questo perché
questa è la mia (sola) maniera
di riuscire a dire le cose.
Di portare avanti un discorso.
Le scritture, le mie, naturalmente
nate postume, celano la forma
del riposo, del denso incantamento.
Versi da gogna nati per non restare,
per morire embrioni innalzati
dal mio ostinato orgoglio.
Leggimi di notte come io scrivo,
fallo pietosamente, con indulgenza,
perché, lo sai, sono nato sfinito.
Diritta non è la mia strada,
confuse le orme. Sulla selce,
calciato, è il mio volto incancrenito.
Con le sue parole
che non prendono l’osso del cuore,
parole rarefatte
che non schiudono le labbra altrui
in dolci fonemi. Ma io sono in un mondo
migliore, sono la foce
e la sorgente: sono Lorenzo.
Sono Lorenzo e sono Diego, Enza Elisa e Edoardo; Ottavio Barbara e Guerrino; Armanno e Francesco. Chiedi in giro. Chiedi in giro se ha spazio questa poesia. Poi ucciditi.
Prima però canta per tutti:
Se vedete un cane randagio
non fategli una carezza
perché felicemente
scondinzolando e grato
non cesserà di seguirvi
con amore fedele.
Ma prima o poi ti verrà a noia
e per mandarlo via
lo prenderete a calci.
Se non lo accarezzate con amore,
lasciatelo, ignoratelo piuttosto
perché vi assicuro
che dopo quei calci
avrà più paura delle vostre carezze
che della sua solitudine.
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