Chiara Daino
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23 Settembre 2012 13:34:47

«YOU wanted an Einstein but YOU got a Frankenstein»

[Alice Cooper]

 

Ringraziando Giulio Viano  per la raccolta di corpi [cartacei e celesti] 

 

 

 

CLARA FLAMMA IGNIS

[di Giulio Viano]

 

 

“Sorella, stirpe simile,

perché pagina sola”:

 

detta da te questa tua ambra splende

taglio nella scogliera

nell’aurora che morde

e ci ricorda

 

che uno, solo è

delle stelle lo spazio

sulle lingue di ossidiana che adornano

senza pietà dal giorno primo in poi

la carta, pelle nostra

 

Incastonato in un occhio d’aquila

avanza il fronte del fuoco

 

e noi, resi spade e libellule

 

un’orchidea per mano

incontro all’uragano

 

la parte epiteliale

di due ombre con il Sole alle spalle

 

 

 

“La Merca”, un corpo che chiede un perché

 

 

Terribilis est locus iste. Recentemente tornato alle stampe, “La Merca” (Fara Editore, 2006), romanzo d’esordio di Chiara Daino, è innanzitutto cosa vera. E come tale, prima che “terribile” nella crescente asprezza, è, nel senso primigenio, “da rispettare”, intuendola. Punto a capo perenne, ad ogni pagina Jenny, venticinquenne protagonista-alter ego, brucia un etto dei suoi pochi chili che la separano dallo scheletro dell’eterno. Volente o nolente, sia lei, sia chi legge.

Turbine stanco prima del tempo, la incontriamo al Centro Albanuova, clinica di recupero per d.c.a. (disturbo del comportamento alimentare), in stanza con l’amica Sara e in attesa di una terza compagna di camera, Vittoria (Titta, sarà per loro) – si divideranno, i loro destini, sul ruvido biliardo del libro –, in un mondo claustrofobico, fra caserma e manicomio in sordina.

Animale che digrigna rivolta, scheggiata fra istinto e ragione, Jenny si carica di prigionia fino al punto di rottura, primo fra molti: “Ricorda il mio episodio come abominevole, cancellalo, vanne fiero, cazzi tuoi!”, sibila lei a Gianluca, ambiguo aitante medico/amico/amante, nel congedarsi da lui e dal Centro per cambiare prigione: ora, ancora, nel mondo che la brucia.

“Giorni o secoli, deve Essere. Non Sembrare. Reciproco. L’Amore non corrisposto ha il sapore di una birra calda: è sempre birra, ma fa schifo.” E Amore non corrisposto è il secco albero su cui il secco fiore de “La Merca” fiorisce – non corrisposto perché scritto maiuscolo e non corrisposto dal corpo, a tormento dell’anima. Un lungo piano sequenza tra vittima e carnefice, incarcerati nelle stesse membra, esternato soltanto in apparenza. La chiave resta all’interno, ostinatamente inestraibile dalla serratura: “Perché rovinare un simile capolavoro di modus moriendi? Perché imbrattare con schizzi confusi una tela tanto candidamente squartata?”.

Jenny e l’abisso, coppia indissolubile, duettano dal principio alla fine, giocando a scacchi all’ombra della falce che si allunga – sostituendo, via via, quella di lei: “La morte rimane soggettiva. Soggettiva come Jenny, predicato nominale di ogni sbaglio.”

Polvere pirica sparsa su terra sterile, la protagonista ripiega innescando se stessa – reazioni a catena, reazione a catene. “Voi sapete cos’è la merca? È un marchio”, dice l’epigrafe: a fuoco segnata anni prima, dall’ombra di uno stupro, a fuoco prosegue ad andare, la vita di Jenny. A volontà, su un unico bersaglio. Atomo deserto in una nube di elettroni estranei, accelerato fino all’antimateria. Perché materia, quasi gnosticamente nemica, è il campo di battaglia, l’arpione dal quale affrancarsi. Ogni incontro, un dibattersi; ogni abbraccio, un inganno; ogni porta, una chiusa.

E a poco giova il successo editoriale che Jenny, lottando, ottiene. Sola era, sola resta; ma “A lei non importava. Sopportava...”

Figlia di “una generazione che ha tutto il superfluo (tranne il necessario)”, sottile come un ferro arroventato, si tempra atto d’accusa: “le cellule impazzite della generazione, da voi generata, dovrebbero impedirvi di dormire sereni, la notte, dopo aver degustato le vostre gocce 20 (mutuabili), dopo aver scopato per secondi 52 con qualcuno che – non sapete neanche perché – divide il letto con voi.”

Quanti, quanti nomi in quel caleidoscopio – e Jenny ai lati, sempre –, tanti dei quali lei ritroverà all’amaro matrimonio di Sara: fra le tre della stanza di un tempo, Jenny resterà antitesi, a dimostrare come crolla un culmine. Con i suoi occhi chiari, camminando sul fuoco, cedendo e combattendo, fiore donato dal suo stesso nome. Con la grazia di un Amen inaudito.

 

Non bollate – i gigli! – 

 

[Giulio Viano per La Merca, Fara Ed.]

 

 

 “Virus 71”: tortuose strade percorse, il magma

 

 

Mobili come mercurio, Sesso subito!, sembrano dire le parole di Virus 71: questa la frase sulla nuda pelle di pagina 35. Ma, come Chiara Daino sottolinea, l’accento sul subito è assente – e non va necessariamente sulla “u”. 

seduco Iago copulo la causa / per ora: addio! domani ti spiego come si legge un vocabolario e perché – si deve coniare un come. E sempre, quando la si legge, tener presente il come. Cherchez la Flamme...

Il 71, nella Smorfia napoletana, è l’”Omm ‘e mmerd’”: questa la sintesi dell’umana (?) galleria, percorsa a passo di carica; il Virus l’autrice – “tagliata e tagliente”, direbbe lei –, inoculata in un’eterna lotta che ne strema le frasi, serrandole per gorghi imprevedibili. Schegge di vita vissute di corsa, vita di schegge, di corse, che assale, rosa dal sale delle mareggiate. Tante, si sente, da rodere ogni riva. Dove anche gli approdi, quasi sempre, hanno il sapore di un corpo perduto: Tutti, tutti dormono, dormono, dormono nel mio letto. All’Armata dei Drudi, ubi sunt dei suoi sé...

Nervose porte aperte per un attimo, per sibilare un’ultima parola muta come un proiettile. E rabbia rovente ad ardere i corridoi, in un’eco di tacchi che nulla hanno da perdere.

Indici e lance puntati contro sagome, questi versi disarcionano senza vittoria, in un torneare amaro, dove sabbia e frammenti di spade si mescolano ad orme che scompaiono. E quanto riflette, la celata: quando mi spoglio è quando mi vesto / fodero piano il viso di cera

E bianco e nero proseguono a mordersi: proprio in uno dei brani più intensamente carnali – le tue labbra, ti prego, le tue labbra... –, il ritmo del bruciare si sofferma: se brilla il bicchiere / ricorda: il cristallo / non è – ferma di vetro. Come una luce accesa sulla chiusa, quelle piccole labbra: / una grande ferita. Seta scivola via.

Isole in tanto frangersi, rare sul mare oscuro, affiorano pensieri dall’intimo sapore di un respiro, prati verdi dove i ritmi si placano, sorridendo in un lessico gentile: Aveva più anima il mio cibo di bambina / ora la vita clessidra muove verso il basso / e chi curiosa quella cosa che chiami cielo? // quel prendersi per mano e lasciarsi – prendere / la mano a mano: l’ottava più in alto (...)

C’è dolore, c’è speranza e sorpresa, serbati e trattenuti a piene mani; c’è tutto il volto di un essere umano, che vede senza mai essere visto.

Il virus, prima d’inocularsi, viene isolato: forse un laboratorio, queste pagine, volutamente tutt’altro che asettiche, dove l’autrice scorre il proprio sangue come in una camera anecoica. E il resto è silenzio, serbato per sé.

E verso il finire del libro, un atomo di quanto Chiara possa, nella penna e nell’anima, da leggere e rileggere come un palindromo: Ho nostalgia di un uomo che non ho / mai avuto – nostalgia di un uomo che / non ho un uomo dico uno e – non sei

 

... per dirti melodia il mio miserere! – Un dono sottovoce, una dolcezza lieve, conservata di spalle, perla azzurra inattesa

 

 

[Giulio Viano per Virus 71, Aìsara Ed.]

 

 

 

UNA MILLA CHIARA

 

Milla di quarzo, Milla che si svela

allo scoperto nella sua struttura

sinuosa d’innocenza

fra il metallo e la neve ... Milla che calca il cielo con lo sguardo

pervinca, per vincere un brivido

nel vento sul vetro che corre

a nome suo, per proteggerne il nome

 

Milla già detta dalle Dolomiti

carta che brucia come salamandra

Milla deserta vigilia del Sole

fata che lascia tracce nel suo canto

 

Milla alla Luna bianca

Veglia sulla scogliera

Milla alla Luna nera

Milla stanca

 

 

talvolta, di sfrecciare

rondini oltre ogni fibra

 

Ma un’alba viola canta un’altra firma,

Milla, è mattina e l’ermellino è vivo.

 

Calanca dell’isola Ichnusa

Che cosa temete, Signora?

Sono le vostre arme

 

[Giulio Viano per L’Eretista, Sigismundus Ed.]

 

 


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