Chiara Daino
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PostPopuli Estratto da PostPopuli
30 Maggio 2012 10:00:00

Lemmy Kilmister (da sanremochiuso.com)

«Another town, another place…»:
era l’immancabile spolmonare insieme a Lemmy, in auto o districando la matassa di radio jack, quando si macinavano chilometri e palchi ai tempi del gruppo Metal. E se la «Razione K» era collaudata in ambito Heavy [3 pacchetti di sigarette; 3 casse di birra; 3 set di skull strings], i primissimi reading poetici la videro digiuna e priva della «Razione K per poeti puri» [3 foto di un ex amore per garantire un effetto depressivo e deprimente da vittima inconsolabile; 3 blister di xanax per simulare serenità bucolica; 3 copie de Les fleurs du Mal per affettare un maledettismo modaiolo]. Tuttavia, inguaribile pesci, odiando massificare e generalizzare: se esistevano gli odiosi esponenti del «False Metal» – datosi che l’universo si controbilancia – sarebbero PER FORZA dovuti esistere anche dei poeti che non facessero dell’orchite pubblica un’epidemica valenza prima.
E continuò a smangiare la strada e una strada nuova, alla ricerca di quel «Carro di Tespi» che tanto le mancava, borchietta stanca, ma cocciuta.

«Another screw, another turn»:
Milano, appuntamento in piazza dei Mercanti per la sua prima Carovana dei versi e, traghettando la carcassa verso il chiostro, il Duomo le lucidò la pupilla nel ricordo: si esibì davanti alla Basilica di Santa Maria Nascente quasi dieci anni prima, insieme a centinaia di cantanti e musicisti – Sinfonia popolare per la pace, festa dei sensi e uno spirito altro, ferrata e fiera grazie alla famiglia che la sua band e la musica incarnavano…
Con scatto metallico rimprovera le sinapsi nostalgiche e le attuffa nella birra, rabdomando – a briglia sciolta – in cerca di Ombretta Diaferia… Trovata! E in un abbraccio sororale scaccia quel «nudo di nido» che la disossa, ritrovando «l’effetto Loto» [lezione Gaibazzi] e superando «l’effetto Ermellino»: mantenersi puri anche in mezzo al fango, resistenti e flessibili per il saldo intreccio delle fibre. E di slancio in slancio: rincorsa e zompo nel rivedere Dome con l’immancabile pyjama [che poi pyjama non è, ma ormai è vizio linguistico e refrain] e Matteo e Ada e Antonella; salutare l’arrivo di Anna in bici; conoscere Luca e Sandro e tutti gli altri e dare corpo ai corpora che aveva solo incontrato nella loro versione scritta.

«Another word I learn to say»:
parte l’azione corale, gregoriano di versi e di voci l’una dentro l’altra, per un ritmo nuovo modulato dal terzo orecchio di ognuno con effetto lisergico. E di tappa in tappa, lungo il tragitto, è un salmodiare e un incedere insieme, attraverso una Milano dalle reazioni peculiari del campionario umano: chi sorride loro; chi li fotografa; chi li disseta [grazie Dani!]; chi li insulta [grazie anche a voi, ne sentivamo la mancanza!]; chi li ascolta…
E prestando la voce ai poeti storici e antologici, parte una bonaria lotta con Heiko che, precedendola in scaletta, s’impossessa di tutte le liriche ch’ella aveva scelto interpretare [e si replica Silvia Monti ché è moglie della Dama in virtù di antica cerimonia celebrata durante un poetry slam]. E ancora: arpionati a un palo recitare la «banda a mano libera» di Yassin El Rahkilli e Salaheddine Louiragui; applaudire Matteo – titano sonoro – e tutte le anime sorridenti [sì, mio geniale Lettore, anche i poeti sorridono]; salutare Beppe e Cami che si aggiungono nell’intonare versi camminando, fianco a fianco, scudo su scudo, cassa di risonanza per la poetica/politica di Marco e di tutti gli assenti – presenti grazie all’operare della Parola detta, involata di bocca in bocca, per epifanie dell’eco, in nome della storia che è sempre storia della f???: verba volant. E questo è Bene!

«Another beer is what I need»:
l’eccellenza dei compagni di Carovana è tuttavia compito di altri [meno coinvolti emotivamente] – dire; ma nel per sempre resterà il capolavoro performativo e poetico di Dome Bulfaro: quasi afono e stremato, spingendo comunque il suo sussurro con la possanza dell’esperienza, lamentò una qualche difficoltà nel rendere giustezza ai versi scelti. Per gioco, due dei suoi compari, gli suggerirono declamare un carme dell’inarrivabile Brunello Robertetti – ed ecce Dome, serissimo, scandire:

Se fossi gatto, miao.
Se fossi cane, bao.
Se fossi tardi, ciao.

E per volere supremo del Fato – ella, in quel preciso istante, non è forse ignara della decisione Bulfarica nonché intenta ad ingollare birra? Innaffiati a spruzzo i presenti nell’area cinematica della sua gittata, grandine di risate e di applausi che rendono VIVA la vita instradata dalla Carovana.

«We can burn»:
e se Jimi Hendrix diede alla fiamme la sua Fender Stratocaster, perché non bruciare anche il nostro strumento cartaceo? Perché un CONCERTO poetico non può prevedere pogo, esultanze, confronti [tra Perec e i Pantera; tra Carmelo e Celan; letture a pioggia e letture sotto la pioggia]? La «parola plurale» esiste ed è quell’Armonia figlia di Marte e di Venere: amore combattente per affrettare albe. E per merito di un’esperienza fondamentale e fondante, la mappatura delle cicatrici [set of scars di Lemmy sovrano] ora è grafia novella che resuscita il tratto artistico: è il risultato di un «numero collettivo». E per la prima volta appare il Delta dove convogliare, il Delta positivo che risolve l’equazione e non più quel Delta negativo che non prevede soluzioni reali.
È ancora possibile un’azione poetica? Sì, possibile e praticabile, finché siamo:
THE ROAD CREW.
Nel grazie, my best growls


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