CORPI DI CARTA CHIARA |
5 Giugno 2015 - L'ERETISTA Eretista come termine per identificare qualcosa di inclassificabile, come definizione per qualcosa che non è in cerca di un’etichetta. L’eretista è un animale in fuga (l’ermellino), braccato suo malgrado, ma capace di dimostrarsi (sempre e comunque) predatore spietato e selvaggio. Animale che combatte tenace per la difesa del suo territorio e della propria prole, in tutto il suo istintivo estraniarsi/allontanarsi dal mondo reale. L’eretista è un animale che ha consacrato la propria esistenza all’Arte. E in questo specifico caso l’Arte è la parola (o coincide con essa). La sopravvivenza dell’animale-eretista è legata, quindi, alla lotta per la parola (assimilabile alla lotta che avviene nel mondo della catena alimentare) – che possa essere intesa come parola altra, diversa da quella dei bipedi, diversa da quella civilizzata di Isaak. Non a caso, un metodo efficace per catturare un ermellino è quello di bloccargli la lingua; non a caso un “cingolo scapolare” è sinonimo di arto [linguistico] da battaglia. La parola nel mondo civilizzato di Isaak è parola morta e piegata a un sistema di produzione di massa che deve inglobare qualunque cosa (e farla sua), in ovvia contrapposizione con la natura selvatica dell’Arte (di cui sopra). E proprio per questo motivo Isaak si riduce al silenzio (più che al semplice) ed è restio alla comunicazione. Anche la sua è una fuga dal mondo, ma degradante. Le parole di Isaak e quelle di Milla sono estremi opposti e, ciononostante, se la suonano e se la cantano da soli. Il contrasto tra queste parole non è da affrontare in termini di torto o ragione, ma nel comprendere che si tratta di un percorso che conduce a uno stato di emarginazione e assenza: una netta divisione che crea – irrimediabilmente – una zona desertica (che potrebbe essere rappresentata in qualche modo da quella di Talóra). Subito stabiliti questi due essenziali poli estremi (per l’eretista il motto è “meglio morto che sporco”, mentre per Isaak potrebbe essere l’esatto contrario), si può cominciare a dipanare la trama del racconto. Un racconto chiamato a evidenziare l’amarezza per l’impossibilità di condividere la parola e la necessità (al contempo) di lottare strenuamente per essa – e salvaguardarla a rischio della propria vita. Ma la narrazione è un vero e proprio caleidoscopio di voci, abilissima nel destreggiarsi tra diversi registri. E questa narrazione, inoltre, si muove con leggerezza efficace attraverso le insenature dei mondi più improbabili: fumetti, rock, letteratura e teatro (giusto per dire delle categorie più palesi) convivono allegramente e drammaticamente in un gioco di rimandi e richiami a tratti irresistibile (si segnala, in particolare, il capitolo dell’incontro tra Isaak e Pascal). Una messa in scena su carta che appare anche eccessiva: far coesistere Luigi Pirandello e Lemmy Kilmister, Wolverine e Kierkegaard dovrebbe risultare alquanto acrobatico (e probabilmente lo è davvero), ma l’umorismo e l’intelligenza con cui il tutto è trattato garantiscono la riuscita dell’operazione. E questa messa in scena eccessiva, tuttavia, rende l’insieme incapace di arginare ogni cosa. Sì, perché “L’eretista” si muove (non dimentichiamolo) nell’ambito della forma canonica del romanzo e l’abbondanza degli elementi posti sulle pagine fa risultare un po’ dispersiva la lettura, la quale, essendo legata (inevitabilmente) a una trama piuttosto lineare da seguire, ne risente dal punto di vista di ciò che si può considerare più o meno superfluo o ripetitivo (a seconda dei gusti – chi scrive, per esempio, avrebbe preferito qualche sottrazione). Ci si sofferma ancora qualche istante su questo discorso dell’essere/apparire eccessivo, perché il romanzo non è da considerasi (o almeno non è necessariamente) complesso. Costruisce la sua struttura su solide fondamenta e architetta situazioni e personaggi destinati a popolare ambienti di una mente che vaga tra varie dimensioni (temporali-surreali), confondendosi con la fiaba e il vero. Ma l’inafferrabilità della protagonista (che, ricordiamo, è l’Arte della parola) è un’esortazione a seguirla e non a catturarla (e ingabbiarla). Tutto ciò che può risultare troppo in termini di riferimenti e citazioni non è propedeutico (o indispensabile), infatti, per la comprensione di qualcosa. Il piacere della lettura non viene intaccato e che si abbia o meno la competenza per cogliere tali elementi (fortunatamente svelati in appendice per i più pigri e per i veri e propri ignoranti – come nel caso di chi scrive), essi sono un di più (un gentile omaggio della ditta) che può rendere il racconto più profondo e aperto ad aspetti e interpretazioni altri – se si ha voglia di dilettarsi nell’esercizio. In definitiva, “L’eretista” è un romanzo difficile da collocare sugli scaffali della libreria, perché non si sa inquadrarlo e non è un’eresia affermare che potrebbe essere accostato a più generi. Ma stiamo parlando, come si è avuto modo di intuire, di un prodotto che rifiuta il genere. E già solo per questo motivo risulta degno di trovare posto sui suddetti scaffali. Lettura critica di Giuseppe Vuolo per L'Eretista, Sigismundus Editrice, 2011. |