LIBRI - RECENSIONI
CON PASSIONE. SU LA MERCA DI CHIARA DAINO
La Merca di Chiara Daino è un libro forte, un libro estremo, che puoi soltanto abbracciare, sentirlo come qualcosa che ti appartiene, oppure allontanare, infastidito forse. Non esistono possibilità intermedie, perché il marchio è qualcosa che si imprime a fuoco, che contraddistingue, richiama o respinge. La Merca di Chiara Daino è un romanzo caratterizzato da un linguaggio scarno, secco, spesso violento, e sempre originale, ricco di neologismi, intelligenti combinazioni linguistiche, giochi di parola e di senso. Ed è un libro che mancava, tra tanti cartacei edulcoramenti, strumentalizzazioni, esorcizzazioni di un qualcosa (non voglio chiamarlo fenomeno) che è molto più diffuso di quanto sembri: il disturbo del comportamento alimentare. Ma sarebbe riduttivo definire La Merca un libro sul d.c.a. La Merca è un libro dalle mille sfaccettature, in cui il d.c.a. si inserisce come manifestazione vivente di qualcosa di universale, che appartiene a chiunque sia in grado di sentire davvero la realtà: la disperazione. È quello il marchio, è quello che allontana chi non ha il coraggio di affrontarlo, perché preferisce nascondere il proprio segno, le proprie ferite (o chi forse non ne ricevute o le ha parate). Jenny, la protagonista di questo romanzo, “decide” di incarnare il proprio disagio, scarnificando il corpo, che diviene espressione di un desiderio d’amore da sempre frustrato. Il disagio, il dolore diviene carne, si materializza, si personifica. Il d.c.a. diviene lo sposo di Jenny, rendendosi in tal modo visibile a lei, perché possa affrontarlo, e agli altri, perché possano aiutarla in questo. Ma nessuno, tra i tanti tristi personaggi che gravitano attorno a Jenny, riesce (o vuole) vederlo. Ladroni mascherati da buoni samaritani, non lesinano gli sforzi nel mostrarsi disposti ad aiutarla (a modo tutto loro) “per il suo bene”, non sia mai, e a “sacrificarsi” per salvarla. Così Gian, il medico che la ha in cura, che s’imbroglia nelle sue stesse misere contraddizioni, nel tentativo di mantenere in piedi la finzione di un matrimonio borghese che fa acqua da tutte le parti. Fulgido esempio di coerenza – come molti altri nel romanzo – Gian ora allontana Jenny, perché con lei “non sarebbe solo sesso”, ora tenta goffamente di incasellarla di volta in volta come “amica” o figlia devota, ora si gode i suoi bravi pompini all’ombra del provvidenziale cruscotto. Finché non è Jenny a uscire dagli schemi a lui così noti, togliendogli l’esclusiva incondizionata, e costringendolo a rifugiarsi in altri lidi più quieti. Così il musicista, felicemente fidanzato, che piomba a casa di Jenny con tanto di capello lungo e discorsi triti e ritriti, facendosi portavoce del moralismo di chi si atteggia a uomo vissuto che la sa lunga, perché può vantare di aver pensato al suicidio quando Jenny doveva ancora nascere. Così la psicologa, che, dopo aver aiutato – forse soprappensiero – Jenny a far riemergere dal rimosso la violenza sessuale subita a sedici anni, e averla esortata a riconoscersi quale “parte (denutrita) di una nutrita schiera” di figli di pluridivorziati, la cataloga come malata di serie B, perché sarebbe la sola artefice, nonché concausa, del proprio soffrire. Parrebbero, questi, personaggi stereotipati. E di fatto lo divengono, perché è la vita stessa a essere spesso ridotta e circoscritta a stereotipi. I più cercano di rientrare in un qualche schema preconfezionato, e di far rientrare in qualche schema anche le persone di volta in volta incontrate. Perché tentare di comprendere richiede sforzo. Molto più semplice è affrontare ciò che si conosce, o che ci si illude di conoscere, previa definizione. Perché la vita è teatro. C’è chi si sceglie il ruolo del sano, del normale, del giusto, e ci si caccia dentro a forza, senza riuscire a reggere la parte con coerenza e chi, come Jenny, si abbandona all’improvvisazione, per non rappresentare altri che sé stessa, e – pur riconoscendone l’irrazionalità – il proprio stesso disagio. Così Jenny non si perde neppure quando si concede a chiunque, perché la sua anima è altrove, ancora libera, di fondo libera anche dal suo sposo mortale.
Ecco che allora nella Merca il d.c.a è grido spaventoso, è richiesta scandalosa d’amore, celata dietro un realistico cinismo dissacratore. Jenny non crede al Principe Azzurro, perché non crede alla maschera dell’amore, ma alla sua sostanza. Jenny non crede alle favole, perché vuole che si realizzi la realtà della sua vita. Le persone che la attorniano, provvide di buoni consigli, impastate di gretti moralismi e ipocrisia, la rimproverano di debolezza, di mancanza di volontà, di non saper vivere. E mi viene da chiedermi chi possa dire di saper davvero vivere, e se davvero sia necessario saperlo. Come conoscere il copione in anticipo, ritrovandosi poi disarmati di fronte al primo coup-de-théâtre, di fronte alla prima botola, o porta a scomparsa sul proscenio. “Imparare a vivere”, dice Derrida, “significherebbe imparare a morire, a considerare, per accettarla, la finitezza assoluta. Credo a questa verità senza arrendermi. Non ho imparato ad accettarla, la morte. Siamo tutti dei sopravvissuti in attesa della fine. Imparare a vivere è sempre narcisistico: vogliamo vivere quanto più possibile, salvarci, preservare e coltivare tutte queste cose che, infinitamente più grandi e potenti di noi, fanno nondimeno parte di questo piccolo ‘io’ che è sopraffatto da esse da ogni lato”. Ecco, la stessa contraddizione esiste nella vita di Jenny. Jenny distrugge un corpo, perché frustrato nella sua esigenza di bruciare di passione e comunione. Jenny affronta la morte, la sfida, la accarezza, se la mette davanti, per farle fronte. Jenny tradisce la vita con il d.c.a (magistrale il colloquio tra lei e il suo “sposo”, immaginario, eppure così reale) perché si è sentita tradita dalla vita stessa. Eppure, segretamente, continua ad amarla, a sperare che ritorni, con un qualcosa di assoluto e sacro. La lettera-testamento finale di Jenny è la chiave di lettura di tutto il libro: un lungo canto d’amore, di pietas anche per chi l’ha offesa, fraintesa, non com-presa. Non è più richiesta d’amore, ma lascito incondizionato dell’unica cosa che Jenny ha posseduto e difeso, il bene come tensione verso qualcosa di alto, puro, che nel finale riluce proprio in quanto estratto dal buio che Jenny ha dovuto attraversare e a cui non si è sottratta, continuando a improvvisare.
Paradossalmente, proprio questo testamento (riprodotto a lato) è canto di vita, esortazione anche per chi da quel buio non riesce a tornare. Che questo libro, dunque, aiuti a capire, a non condannare, ad abbracciare, a non minimizzare, a unirsi dalla lotta, a non colpevolizzare, perché il senso di colpa è già Moloch per chi vive nel buio (mea culpa, ripete Jenny fino alla fine) e ha il volto del disagio, d.c.a., o disperazione, o abbandono, la solitudine inumana in cui si dibatte la protagonista, pur non essendo, all’apparenza, quasi mai sola, in queste pagine.
Fonte:
http://www.faraeditore.it/html/recensioni/Merca-DeLuca.html
Chiara De Luca