Chiara Daino
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SIAMO SOLI [PAROLA D'ESEGETA]

SIAMO SOLI [MORIRÒ A PARIGI]

SIAMO SOLI [morirò a Parigi], Zona Ed., pp.131-132, retrospettiva di Jacopo Riccardi

"E mi dedico: all'antica arma da getto". Daino connette "significanti che tutto significano" all'opposto di quanto è stato impropriamente detto. Abili lettori, ebbri ma non inconsapevoli, abbiamo attraversato il mare di "Siamo soli [morirò a Parigi]", siamo giunti alla citazione di César Vallejo da cui è tratto il sottotitolo (e forse è Daino a soccorrere Vallejo e non viceversa) e siamo alle soglie della pagina di clausola, quasi una postfazione, che si arricchisce anche di una funzione apocalittica (come la "Rivelazione" di Giovanni conclude il Nuovo Testamento). "Soli per definizione" è chiave solutoria, Dama non è ostentator febriculosae eruditionis come disse lo Scaligero di Aulo Persio, ma è Edipo di sé stessa, radicata nel cuore dell'enigma, che Aristotele definiva "il mettere in contatto quel che non si potrebbe" (Poet. 22). Dama parla velatamente (ainissetai) ma fornisce indizi interpretativi. "Soli" si rivela sussistente nella duplice denotazione di (plurale di) "solo" e "sole", anche attraverso l'epigrafe da Sartre, sibilante ma non sibillina. Al contempo, si fornisce una "definizione" (si è "soli" attraverso un procedimento definitorio, per valendo come preposizione latineggiante del complemento di mezzo e di moto per luogo nel viaggio logico), ed è di nuovo Aristotele (I Top. 5) a fornire la "definizione della definizione" come "dichiarazione dell'essenza della cosa". Parola, radice, autentico illuminante materico dire. Significante che suona un significato che è res, pirotecnico fuoco letterario che – come il roveto mosaico – non si consuma.

"E mi dedico", dunque, è un autoepitaffio (indiscussa la dimensione testamentaria del testo); ma il colon lo aggancia (perché svolge il ruolo di media distinctio secondo le classi dell'Ars Grammatica di Donato, distinguendo et connettendo) "all'antica arma da getto", l'arco, cui Dama si dedica nella triplice figurazione di Diana/Ecate, di Dama scandinava e di discepola del dipolo cosmico Apollo/Dioniso intuito da Nietzsche e strutturato da Giorgio Colli. Con l'arco della Dama siamo alle origini della scienza e della filosofia, siamo al primigenio significato delle parole, siamo alla dimensione epica dell'oralità, siamo allo stadio vichiano dell'anello della storia, in cui lo stadio infantile di Piaget si coniuga alla saggezza del longevo. Ed è "l'ultima freccia", la parola obliqua, la parola ultima ad essere pronunciata, la soglia non attraversata, perché "...se non ci decidiamo mai a morire è solo perché non abbiamo ancora letto [o scritto] la frase perfetta" (p. 128). La sessualità della parola, la vertigine dell'attingere alle fonti sovraumane del dire, la dimensione astrale e galattica ("soli") dimensionano la pagina di Daino come biblica (di libro, per eccellenza). Una pagina assolutamente spirituale, un personale discorso "con" la morte (e non "contro" di essa), l'evangelo della profetessa border line.

Dalla parola "arco" (di cui è dato solo il lemma) a "freccia", da cui a "cocca" ove però il significato connesso alla parte dello strumento di caccia dove si innesta lo strale si sovrappone alla denotazione marinaresca ragguagliata da "chiglia" (con contemporaneo richiamo alla chiglia come parte della carena ed all'arco carenato). Ludus ma non certo nonsense: le immagini si sinestetizzano e si amplificano come in un tumbler. Ed ancora, "dritta e recta", che sono sinonimi nella monetazione (donde il successivo "conio") e nella impaginazione, è un'endiadi che fornisce dimensione statuaria al corpo di Dama, che si appresta a battere/pestare (coniare) la sua "cinquefoglia", la Potentilla erecta (pianta spermatofita e pertanto "eretta", presente nell'araldica) che è pianta officinale che riduce gli spasmi al colon. Navis aut caput: la dittologia della tipica scommessa probabilistica del "testa o croce" ricollega l'immagine dello scafo ed apre ad un hommage alla matematica (la martingala è il processo stocastico del lancio della monetina) per concludersi – attraverso una doppia risottolineatura della parola "solo" – nel termine "mano", polisemico ed aperto. Mano come lancio dei dadi, come sorte, come gioco del destino e tuch imprescindibile, mano come contatto e contagio, mano come pugno chiuso e palma orante, mano come impugnatura del collo di bottiglia e del sesso eretto, mano che scrive.

La scrittura di Daino non smarrisce affatto il proprio destino, né su piani di realtà né su piani della comunicazione, è anzi focalizzazione del destino, duello, è astro scrittorio (sole) e non dis-astro, è religioso vangelo dell'irredenzione individuale sublimata nel messaggio politico e letterario della Parola-Salvezza. La soteriologia dainiana è sostanziale e filantropa proprio perché giace su un senso individuale disperante.

"Non mi soccorre". A capo. "Neanche la disperazione". L'inizio della pagina di rivelazione è un pentasillabo volutamente disarmonico, spezzato dallo spazio bianco (horror vacui), che si declina come "disperazione" "in-quieta". La paralisi che fa perdere la sensibilità agli arti (negazione del toccare che si fa speculare nella negazione dell'essere toccati) è scena topica, sono extrema morientis verba. Senza lacrime, bloccate (come la crescita, secondo i pediatri) dalla "eterna sigaretta" che si appalesa come protezione dell'infanzia (la stagione del non-dire), la Dama sa che non arriverà il soccorso, che si rivela non abbastanza pronto.

Mentre l'uomo (hom, non vir) regredisce nell'ustolare (toscanismo che definisce la brama di cibo), la Dama nella sua anoressia endemica è tutta bocca (oralità) silenziosa, estasi di fronte allo spazio, polvere di stelle per una religiosità laica e non meno universale. La scena funebre è grottesca e nobile, la Dama sempre al limite raccoglie attorno a sé l'oggetto fetish (lo stivale ed il tacco), la memoria dell'età fanciulla (l'altalena) trasfigurata nel dondolare della U di Tarchetti, il "pericolo" di "contagio" sta nel germe della comprensione, il sapere leopardiano e biblico come condanna che si socializza ai soli pochi che sanno traslare, transducere. Il cuore (corda) appare come una dimensione attesa, un'esigenza di plurale celato nell'immagine tetra del patibolo (è forse possibile rinvenire un riferimento alle corde che torturarono Tommaso Campanella che si finse pazzo nell'anno Domini 1600). In statu termini, si situa un omaggio alla matematica, fuori di metafora all'amicizia, ed un versetto di paravangelo (la negazione della parabola del grano di senape), con un amen solenne ed irridente.

La parola non viene dunque svuotata, ma anzi ripulita e rigenerata: Daino evoca il senso pieno e plurimo del Verbo come i neviim estatici dell'Antico Testamento, derviscio rotante sull'Aleph di Borges.

Fonte: https://www.facebook.com/notes/doppelg%C3%A4nger-di-dama-daino/siamo-soli-parola-desegeta/406009746176688

Jacopo Riccardi
ChiaraDaino.it © 2011

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